Gli strumenti che forse fin troppo ci mette a disposizione Pavel Lunguin sono gli stessi che gli rimproverano i suoi detrattori: schemi-spettacolo magari ipercollaudati (e subito si pensa al cinema americano), come la dinamica violenta, il lirismo di una musica, lo scoppio di un colore, di un pianto o di una risata. Primi-piani magnificati, istanti privilegiati che s'imprimono nei sensi, nella memoria o nella ragione. Altrove gemelli, qui Lunguin si pone all'opposto di un Kanievski. Questi fruga nella memoria, ricomponendo un passato d'incubo ed illusione. Il primo scende, oggi, nelle palestre dove i giovani di Mosca si danno al body-building: è spirato il vento della perestrojka, ed ora si chiamano nazionalisti. Inseguono ideali impossibili da definire: e, soprattutto, tutto ciò che sfugge loro, poiché diverso, ebrei, anziani, omosessuali, stranieri.
È un cinema generoso, quello di Lunguin; pantagruelico e disordinato. Tanto disordinato da parere, al limite, sospetto: come quando, un po' come quei giovani che in definitiva vuol prendere a partito, mescola le carte, si rimangia le proprie affermazioni, confonde azione ed aspirazione, fascismo ed attivismo. Ma, proprio ad immagine del suo stile incontenibile e debordante, dei suoi slanci di lirismo commovente o irritante, dei suoi personaggi eccessivi che sanno però concedersi delle pause di meditazione è un quadro della Russia di oggi che finisce per affiorare dal film. Con i suoi slanci, i suoi ideali, pure la sua abulia scontata: sostituita a qualcosa d'ancor più indefinito, d'altrettanto irraggiungibile.
E per il giovane bruto, che vediamo all'inizio capeggiare le bande guerriere a colpi di catene in una sequenza iperviolenta alla therminator, è già ora riflessione, e di un'ennesima riconversione: quando apprende di essere figlio - lui, il capo degli sterminatori - di un ebreo.